L'ARPA BIRMANA (1956, KON ICHIKAWA. GIAPPONE, DRAMMATICO)

 https://youtu.be/Pw8bOZTC1d8?si=IvaLTwzNYJ8DBiad

Titolo originale: Biruma no tategoto.





Birmania,  ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Mitsushima è un giovane tenente.  Decide di allietare il morale della truppa, decisamente caduto in basso dopo un tentativo di fuga conclusosi con la resa e la notizia che la guerraè finita e il Giappone si è arreso, suonando l'arpa che si è fabbricato. Il suo comandante gli affida la missione di convincere ad arrendersi un gruppo di compatrioti che resiste disperatamente, assediato dagli inglesi e riparatosi dentro una grotta. Lui si reca sul posto e parla con quegli uomini, che lo trattano da rinnegato e lo cacciano via. Ma gli inglesi decidono di farla finita con il drappello e bombardano la grotta, uccidendo tutti tranne Mitsushima.  Il quale, ferito a morte e salvato da un Monaco buddhista, decide di diventare un Bonzo e di dedicare la sua esistenza al recupero dei corpi dei soldati giapponesi morti in Birmania e di tagliare i ponti col passato,  nonostante i suoi ex-commilitoni, che lo hanno ritrovato dopo tante ricerche e sofferenze,  e alla fine lo hanno riconosciuto proprio dal suono paeticolare della sua arpa,gli propongano di tornare a casa con loro. Ma lui prende in mano lo strumento con cui tante volte soleva allietare le loro giornate tristi e, con un canto melodioso ma drammatico, spiega loro il motivo per cui ha scelto di non tornare a casa con loro e restare in quella terra colpita da sangue e violenza. 

"Rossi come il sangue sono le terre e i monti della Birmania ", è scritto all'inizio e alla fine del film. Che si risolve in una domanda tanto semplice quanto universale: Perché tutto questo sangue, questa desolazione? 

Il regista, in una delle scritte che accompagnano il film, qualifica tale domanda come inumana e indica il momento del cambiamento del protagonista tramite l'incontro con un Monaco buddhista che lo ha curato e guarito, ma non approfondisce questo punto. E parla di una luce che lo avrebbe investito e illuminato nella convinzione che nessun pensiero umano può dare una risposta ad un interrogativo inumano.

Certamente. Ma il punto è che Mitsushima sente la sua sproporzionato rispetto al male che vede. E sa che io non posso che portare un po' di pietà laddove è esistita solo crudeltà. E si augura che in tanti abbiano questa pietà (Allora non importerebbero la guerra, la sofferenza, la distruzione, la paura, se solo potessero da queste nascere alcune lacrime di carità umana).  Ma questo sforzo lo porta a non guardare oltre la sofferenza da cui è circondato, i mucchi di ossa dei suoi compatrioti, e per lui l'Oltre si ferma a questo. E il suo tentativo, pur nobilissimo, non lo apre a quel rapporto con questo Oltre se non in maniera sporadica tramite la citata luce. Per cui, l'ascetismo si risolve in un'ammissione di impotenza, nonostante gli sforzi che lui si sente di fare, e questo suo sforzo appare nobile ma, in fondo, limitato. Nel tempo, nello spazio e persino nella memoria dei suoi amici e commilitoni,  che presto si dimenticheranno di lui.

Ma il cristianesimo non è questo. Parte da questo, se vogliamo, ma non si risolve solo nell'impossibilità di sconfiggere il male con le nostre sole forze.  Non è un incontro (o non solo) con una luce ma con una realtà concreta, per cui quel mondo su cui Dio ha immesso Suo figlio non è l'occasione per un lungo elenco dei mali che affliggono la terra, ma il modo con cui il Mistero si fa carne, e ci consente di vivere la vita, affrontando gli aspetti belli e quelli brutti dell'esistenza non con la tristezza di Mitsushima  ma con il sorriso e la lietezza di quell'anziano indigeno brasiliano che attendeva che il sacerdote,  in piena foresta Amazzonica, venisse a portargli l'Eucaristia, o del vecchio mendicante indiano che, raccolto per strada dalle suore di Madre Teresa,  ebbe a dire: ho vissuto tutta la mia vita in un inferno. Ora muoio circondato da angeli. 


PIERO MASIA 

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