TIMBUKTU (2017, Abdelrhamane Sissako. Mauritania/ Mali / Francia)

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Uno sguardo vero, che valorizza ogni particolare. Ecco che cosa mi ha comunicato la visione (per la quinta volta) di TIMBUKTU, film mauritano (ma con soldi francesi) palma d'oro a Cannes 2014, che ci propone una dicotomia tra la visione integralista dell'Islam e una visione della stessa fede piena di gioia e razionale. Il contrasto è tra le violenze a cui gli integralisti sottopongono la capitale della Mauritania Timbuktu e quelle stesse violenze che, in un villaggetto lontano, arrivano attutite, quasi mitigate, come se le distanze rendessero evidente l'irrazionalità di queste regole anche a chi dovrebbe farle applicare. Il contrasto è con chi vive la fede islamica con il sorriso, valorizzando tutto quel che vede. ANCHE SE PURTROPPO QUESTA PICCOLA OASI DI FELICITà FAMILIARE SARà FUNESTATA Persino il cuore degli aggressori s'intenerisce. Un esempio? Secondo le regole dei talebani il calcio è vietato. Ma, una volta soli, uno degli argomenti di discussione tra loro è il paragone tra Zidane e Messi.


Ma, anche nel paese, il clima di odio comincia a farsi sentire. Kidane, un allevatore Tuareg che vive in una tenda con moglie e figlia, viene a conflitto con un altro abitante e lo uccide. Scappa di casa, senza dir nulla alla famiglia. La moglie farà appena in tempo a vedere il marito poco prima della sua esecuzione dopo un processo sommario. 

Questa piccola storia si inserisce dentro una grande storia di libertà e di resistenza contro i soprusi di un gruppo di fanatici contro un intero popolo, le cui vicende vengono raccontate con un evidente coinvolgimento dal regista, che paragona la resistenza del suo popolo a quella di piazza Tienanmen.

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