IL GRANDE SENTIERO (1964, WESTERN. JOHN FORD)

 







Per il suo addio al Western,  John Ford sceglie di tornare nello Utah e nella sua amata Monument Valley.  Ma stavolta decide di raccontare il mito che lui stesso contribuì a costruire in modo diverso, visto dalla parte dei Nativi ("Pellerossa " o "indiani" come era uso chiamarli al tempo). I protagonisti del film sono gli Cheyenne,  che, fuggendo da una riserva in cui hanno conosciuto solo fame e malattie,  lottano contro le giacche blu e il potere dei visi pallidi e decidono di forzare loro la mano, sfidandone l'ira pur di tornare alla terra degli antenati. I soli a comprendere le loro ragioni e a dare una mano a questo gruppo di disperati sono un burbero ma umanissimo capitano  (Richard Wydmark) e una volenterosa giovane missionaria qualche che decide di unirsi a loro (Carrol Baker), che, seppur dopo molte discussioni tra loro, riescono a difendere con successo le ragioni dei loro amici rossi. 

Ford non ha bisogno di redimersi agli occhi di nessuno,  ad onta di quanto dice Ferdinando Di Giammatteo. Ha perorato la loro causa fin dagli anni trenta del novecento, dando loro ingaggi nei suoi film (anche se mai come protagonisti), riportandone, in alcuni film  (lo stesso  Sentieri selvaggi, ad onta della scena del calcione di John Wayne alla squaw) le ragioni. Ma, a ben vedere, la lotta per la giustizia viene condotta da uomini bianchi. Infine, la storia d'amore tra i due protagonisti non appare perfettamente amalgamata con il contesto e con la trama. Non sappiamo se questo difetto è dovuto all'origine letteraria del film, che comunque si basa su fatti storici, o a una certa staticità di Wydmark. 
E manca il solito pizzico di humor presente in quasi tutte le pellicole del regista,  qui anche in veste di produttore. 

Ma, per giudicare questo film (ultimo western di Ford, punito immeritatamente al botteghino), non dobbiamo concentrarci solo sui difetti, congeniti in un regista sessantottenne che cercava di reagire ai tempi che cambiavano senza ripudiare la sua poetica.

Perché qui gli "indiani" sono protagonisti NON singolarmente ma proprio come popolo. E nel contesto delle terre in cui hanno sempre vissuto. I loro gesti sono sempre visti con una profonda empatia e umanità sofferta e partecipata commozione. E forse il titolo originale, Cheyenne autumn, rende meglio e fa capire l'essenza del film.

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