LUCI D'INVERNO (SVEZIA,1963. INGMAR BERGMAN. DRAMMATICO)

 Film sottotitolato in italiano CLICCA QUI







CON: Gunnar Bjornstrand ,Ingrid Thulin, Max Von Syndow. SVEZIA, 1963.


TIT. ORIG.: Nattvardsgästerna


Tra i film più importanti del regista. Ma, alla fine, profondamente pessimistica e molto negativo sia sulla presenza di Dio nella vita degli uomini (che poi è un'assenza di Dio, sentita con amarezza da Bergman). Per questo film, ci affidiamo alla recensione apparsa a suo tempo su www.labottegadihamlin.it


"L’idea alla base di Luci d’inverno (1962) Bergman l’aveva in mente da anni: un uomo entra in una chiesetta di campagna, si avvicina all’altare e dice, rivolto all’immagine di Cristo: «Resterò qua fino a che non mi parlerai». Dopo aver visto Diario di un curato di campagna (Jòurnal d’un curè de campagne, 1951) di Bresson, pellicola che lo colpì profondamente, il regista svedese decise di trarre da questo spunto un film.

La location delle riprese fu Falum, città della Svezia centrale, nella quale il lungometraggio fu girato nel ’62. Si aggiudicò il primo premio all’VIII Settimana internazionale del film religioso a Vienna e il Gran premio O. C. I. C. nel ’63 (ex aequo con Il buio oltre la siepe di Mulligan). Il titolo originale Nattvardsgästerna in italiano si traduce letteralmente come “i comunicandi”, duplice allusione alla comunione eucaristica e alla comunicazione tra gli uomini.

La cosa che colpisce di Luci d’inverno è che, pur essendo dedicato al tema del silenzio di Dio, è un film estremamente parlato. La sua struttura, come nel caso del precedente Come in uno specchio, si basa su scene separate le une dalle altre da sequenze-intermezzi, ed ogni scena mostra il pastore a colloquio con un diverso personaggio. Nonostante ciò non ci sembra opportuno sostenere la tesi, avanzata da qualche studioso, sulla base della quale Tomas sia l’unica vera presenza nel film. Ad esempio, anche quella di Jonas è una figura di grande importanza, non solo per questa pellicola ma per tutta l’opera di Bergman: egli è il portatore della “fobia atomica”. Teme che i cinesi possano sganciare la bomba ed annientare l’umanità. Bergman non insiste oltre su questo tema: tuttavia, egli si serve di Jonas per mettere in scena le paure dell’uomo contemporaneo.

Vero è che Tomas è il protagonista della pellicola. La sua figura è paradossale: è un uomo di chiesa, ma va alla ricerca di Dio, perché non ha fede. Sarebbe più corretto dire, in effetti, che Tomas non ha mai avuto fede. Contrariamente a quanto si possa pensare (e a quanto egli stesso ci induce a credere quando si lamenta che Dio l’ha abbandonato), la sua crisi religiosa non deriva dalla morte della moglie. È egli stesso ad informarci di ciò, quando, in auto con Marta, le confida: «I miei genitori hanno voluto che diventassi prete», sottolineando così come di fatto egli non abbia mai avuto alcuna vocazione. Osserva acutamente Baldelli: «[…] non si tratta, difatti, di un animo profondo che abbia perduto Dio, ecc…: ma di un adulto che si era finto fraudolentemente un Dio menzognero ed un’autarchia personale: egli vive nel vuoto ora come ci viveva prima – quando Dio gli parlava familiarmente e la moglie era viva – il pastore non avrebbe avuto niente da rispondere a Jonas […]: poiché il suo Dio era solo un idolo “coniugale”».

Non è chiaro, però, se il protagonista, alla fine trovi la fede o meno. Il film si conclude con la celebrazione di una messa, da parte di Tomas, in una chiesa vuota. Questo fatto consente due possibili interpretazioni: il pastore, a seguito delle parole del sagrestano (per cui anche Gesù avrebbe sofferto il silenzio di Dio, giacché alla sua disperata invocazione – «Dio, perché mi hai abbandonato?» – il Padre non rispose) ha trovato la fede e dunque, se celebra la messa in assenza di fedeli, lo fa perché, in qualche modo, sente di dover rendere conto a Dio (a chi, se no?). Per sostenere questa tesi del recupero della speranza alla fine del film, alcuni hanno evidenziato come lo sguardo di Marta prima e quello di Tomas poi, entrambi seguiti dalla macchina da presa, si innalzino progressivamente verso il cielo, incontrandosi in un punto imprecisato.

Altri, invece, hanno sottolineato il carattere “burocratico” del rito celebrato nella chiesa deserta, ragion per cui tale celebrazione avverrebbe senza che il pastore ci creda realmente. Del resto, non aiuta a risolvere il dubbio neppure l’espressione dipinta sul volto di Tomas. Secondo Aristarco, il distacco leggibile sul volto del pastore sarebbe indice del suo ateismo; secondo Bini, invece, il volto livido del protagonista rifletterebbe tutta la sua angoscia. E del resto, nella sceneggiatura, Bergman descrive come «pallido e angosciato» il viso di Tomas. Truffaut, dal canto suo, fornisce del finale un’interessante interpretazione allegorica: «Bergman vuole dirci che gli spettatori di tutto il mondo stanno abbandonando il cinema, ma pensa che sia comunque necessario continuare a fare film, anche se si dubita e anche se non c’è nessuno in sala».

Ad aggiungere ulteriore ambiguità alla faccenda, la sceneggiatura, il cui manoscritto originale si concludeva con le parole «Soli Deo gloria», fatto che accrediterebbe l’idea della conversione (tesi avallata, del resto, anche da Victor Sjöman, autorevole portavoce del cineasta). Bergman, però, in un’intervista, affermò che la pellicola ha segnato «l’annientamento completo» della problematica religiosa nella sua vita e nella sua opera.

Ancora una volta, dunque, Bergman non conclude il film, non scioglie il nodo. Egli racconta di personaggi alla ricerca della fede, ma mai della conquista della stessa. «I fatti che accadono in Luci d’inverno coprono lo spazio di una giornata, e si svolgono nell’universo chiuso di una chiesetta, una canonica, una pieve, un angolo di bosco nei pressi di un ruscello. […] Il fascino discreto della poetica bergmaniana è forse proprio in questo pudore nel risolvere i problemi, quasi non volesse interferire con l’autonomia intellettuale dello spettatore» (da “Cinema & film”, 1968, n. 5). Bergman, dunque, non afferma ma neppure nega la conversione: semplicemente, non chiude la porta a nessuna delle due possibilità, lasciando il finale aperto.

Ma se in Luci d’inverno Dio è silente, quale potrebbe essere la causa di tale silenzio? Presumibilmente, l’assenza d’amore. Rispetto al precedente Come in uno specchio, in cui David vedeva nell’amore («qualsiasi specie d’amore») la strada per avvicinarsi a Dio, nel secondo capitolo della trilogia bergmaniana l’amore c’è ma è sterile o rifiutato: Tomas, ad esempio, riversa il suo amore sulla moglie morta; non è innamorato di Marta, oppure, se prova qualcosa per lei, tale sentimento non ha la forza necessaria a suscitare in lui la fede. Quando Tomas (interpretato dal grande Gunnar Björnstrand, il quale – ironia della sorte – impersonava David nell’opera precedente), nelle sue prediche ne parla, lo fa in modo meccanico, senza convinzione. Sembra quasi che in Luci d’inverno, Bergman voglia rimangiarsi quell’esaltazione del sentimento amoroso che aveva fatto in Come in uno specchio: in Tomas, la mancanza d’amore è causa del (o è essa stessa il) silenzio di Dio.

Al di là di tutto ciò, se una morale c’è in questa pellicola, essa sembra essere quella kierkegaardiana per cui l’assenza di Dio è fonte di dolore per gli uomini".

Commenti

Post popolari in questo blog

IL BACIO PERVERSO / THE NAKED KISS(SAMUEL FULLER 1964)

PRONTI A MORIRE (USA, WESTERN 1994)

AGNUS DEI