QUARTO COMANDAMENTO / FRANCIA-ITALIA, 1987. STORICO. BERTRAND TAVERNIER E RICCARDO FREDA

 


Dal Jazz di Round midnight al tardo medioevo in un solo anno. È il percorso compiuto tra il 1986 e il 1987 da Bertrand Tavernier, regista del filme aurore del soggettocon sua moglie Colo (vi recita anche il figlio Nils), che vede realizzato il suo sogno lavorare con Riccardo Freda, regista italiano degli anni cinquanta-sessanta del XX secolo, da lui esaltato quando faceva il critico cinematografico per i Cahiers du cinema. 
Siamo in un feudo della campagna francese, durante la Guerra dei Cent'anni, a metà del sec. XIV. François de Connemard, il feudatario di queste terre (che ha il volto del bravissimo Bernard-Pierre Donnadieu) è stato segnato per tutta la vita dalla guerra e dal sangue, fin da bambino quando, appresa della morte del suo amato padre mentre combatteva in terre lontane, si isolò da tutto il villaggio per tre mesi in cima ad una torre. Cresciuto, scelse di combattere gli inglesi assieme a suo figlio Arnaud (Nils Tavernier),  scoprendo ben presto, a sue spese, che la guerra era ben altra cosa rispetto alle descrizioni che ne facevano poeti e trovatori. 
Tornato al castello assieme a un manipolo di sbandati criminali, lo trova molto spoglio. Quasi tutti gli arredi erano stati venduti dalla sua secondogenita Bèatrice (Julie Delphy), che gestiva i beni in assenza del genitore e del figlio maschio. Lei, ragazza molto educata e pia, attendeva quel momento da ben quattro anni, e si era costruita nella sua mente una figura di padre idealizzata, ma si trova a dover fronteggiare un uomo violento, crudele, sadico, avido di sangue, che ben presto sfogherà la sua crudeltà contro tutti, inclusa lei...
 

Quello che Tavernier (coadiuvato da Freda e dagli attori) mette sullo schermo, attirandosi i complimenti del grande medievista Jacques LeGoff, che apprezzò la ricostruzione d' ambiente, è un medioevo lontano anni luce dagli stereotipi antichi e moderni, un'epoca e un luogo in totale sfacelo, quasi in stato di decomposizione avanzato, nuda come le pareti del castello svuotate degli arazzi e di ogni traccia della precedente bellezza e fredda come il vento, la pioggia e la neve che imperversano sui terreni feudali da tempo non lavorati e abbandonati all'incuria perché non vi mette mano nessuno, un tempo che affonda nel sangue, nello sterco e nei pidocchi ogni refolo di umanità.
Tuttavia, analogamente, il rischio dello  un po' stereotipo "al contrario" c'è, evidente quando Tavernier, in diverse interviste rilasciate per lanciare la pellicola, contrappose questo periodo a quello illuminista e post-illuminista, a suo dire superiore a motivo delle teorie razionaliste settecentesche (mi permetto di suggerire la visione del bellissimo L'Arcano incantaatore diretto nel 1996 da Pupi Avati, che pone l'accento sull'irrazionalità evidente anche nel "secolo dei lumi"). Di fronte a tale violenza che irrompe nelle vite dei personaggi in modo sempre più grande man mano che il film, una coproduzione francese e italiana, va avanti (sempre presente, in ogni epoca), il regista sottolinea la perdita dell'innocenza della giovane protagonista, il venir meno della sua stessa Fede  e della sua confidenza con la Madonna, con cui prima parlava spesso, fino alla dichiarazione dell'odio a Dio e alla scena finale, in cui vengono sparigliate le carte. Qui è evidente come lo stesso peccato, anche quello più grave, se posto con umiltà e in ginocchio di fronte allo sguardo del Mistero, diviene, come dire, più "umano". Come il sangue che la giovane spalma sul volto della statua di Maria, come in un'ultima richiesta di Grazia che nulla censura del male fatto e di quello subìto.

PIERO MASIA

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